Un semplice incidente
Jafar Panahi racconta (di nuovo) cosa significa vivere, soffrire e fare cinema tra le fauci del regime islamico iraniano.
Ci sono registi che non possono scindere il loro vissuto dalle opere che producono. Esso occupa costantemente la superficie delle immagini e il senso delle storie raccontate. Nel caso di Jafar Panahi, questo è addirittura un non-vissuto, perché si è trattato di sottrazione della libertà personale: dal 2010 al 2023 il regista è stato incarcerato, condannato, rilasciato, costretto agli arresti domiciliari dal governo islamico iraniano. Un esilio interno in cui la sospensione permanente di diritti - di filmare, di viaggiare, di parlare con la stampa - ha agito come dispositivo di censura per cancellarne la presenza pubblica e artistica. Ma nonostante il divieto imposto dal regime, il cinema di Panahi ha continuato a riprodursi.
I film della sua “seconda fase” sono opere nate in clandestinità che sfidano la società del controllo e della sorveglianza. This Is Not a Film, fin dal titolo Magrittiano, dimostra l’urgenza di Panahi di testimoniare la sua reclusione. Taxi Teheran racchiude la vitalità e le contraddizioni della società iraniana nell’abitacolo di un taxi guidato dallo stesso Panahi. No Bears, in cui i confini cinematografici, geografici e politici si sovrappongono e cambiano i destini degli individui grazie alla forza delle immagini. In tutti questi lavori, Panahi elabora un confronto dialettico tra sé stesso, il paese che lo rigetta e il resto del mondo che ne celebra il coraggio. Un atto di resistenza che potrebbe spezzarsi (o spezzarlo, di nuovo) da un momento all’altro.
Un semplice incidente si colloca all’interno della logica di un cinema che esiste perché minacciato e si rigenera nella dimensione del margine: ennesimo capitolo di una filmografia che non vive malgrado la sua negazione, ma la attraversa, come se solo dalla repressione potessero emergere immagini in grado di lasciar scaturire un’illusione di verità. Anche su questo set, Panahi è costretto al continuo movimento e gira dove gli è concesso esistere: in strade di periferia, parcheggi, nel retro di un furgone, in un vagare spaziale e interiore che inghiotte i confini, il deserto e le colline fuori Teheran. L’unico modo per sopravvivere nell’Iran contemporaneo (dei suoi personaggi e del suo sguardo) è non lasciare tracce materiali di sé, dentro un recinto sempre più stretto.
Ma in Un semplice incidente i personaggi non fuggono dagli orrori, si fermano e rialzano la testa. Osservano il volto di chi li ha torturati e scelgono di reagire. Alcuni con il bisogno di soddisfare un desiderio di vendetta, altri con l’elaborazione del trauma, altri ancora scegliendo la superiorità etica e morale. Qui il vissuto e il girato si intersecano: da un lato della macchina da presa c’è il dolore del prigioniero Panahi, dall’altro la rappresentazione della reazione di ex-carcerati messi di fronte al loro carnefice. Il risultato è vertiginoso e la domanda che attraversa tutto il film - a cui Panahi non può rispondere - è la stessa che da sempre tormenta chi vive sotto un regime oppressivo: come si risponde alla violenza senza riprodurre la logica della violenza? E ancora: è possibile abbattere un sistema totalitario senza adottarne i metodi? Panahi mette in scena il dubbio e indaga l’ambiguità morale, in un cortocircuito tra giustizia e vendetta, tra dignità e istinto di sopravvivenza.
Ma accanto alla tensione della tragedia umana e politica, Jafar Panahi inserisce lampi di ironia grottesca. In un Paese governato da una teocrazia che predica purezza morale, due guardie giurate chiedono soldi per chiudere un occhio di fronte al delirio dei protagonisti, e con disarmante naturalezza offrono la possibilità di pagamento tramite POS. È una delle sequenze più assurde del film, che mostra come l’autorità, frantumata in infinitesimali abusi di potere, diventa una caricatura di sé stessa.
Ancora più tremenda è la scena del ricovero della donna incinta. Per accedere alla sala parto sono obbligatori due requisiti: il marito e la carta di credito. Anche il fondamentalismo più rigido finisce per piegarsi alle logiche del mercato, con Panahi pronto a sottolineare le contraddizioni dell’ipocrisia governativa nell’unico spazio pubblico in cui decide di filmare.
Oltre alla dimensione politica, etica e metacinematografica, Un semplice incidente funziona anche come thriller puro: la tensione è costruita con una precisione chirurgica nei momenti più concitati e nei lunghi piani sequenza, fino a un epilogo che lascia in uno stato di terrore sospeso. Non un colpo di scena, né una rivelazione, solo un cigolio troppo simile a quello di una cella arrugginita. Per chiunque protesti - togliendosi il velo, aderendo a uno sciopero o imbracciando una cinepresa - l’Iran sarà sempre una prigione a cielo aperto.
Il riconoscimento a Cannes, con la Palma d’Oro consegnata finalmente al regista in presenza, è un atto di restituzione e un ritorno a casa dopo 15 anni di confino. Come se l’industria cinematografica occidentale ricordasse che, anche quando gli si vieta di girare, Panahi continua a farlo - e continua a farlo meglio di molti suoi colleghi liberi. Grazie al cinema di Panahi (e di Rasoulof, Farhadi, Asgari, Saeivar, etc.), la tragica realtà dell’Iran troverà sempre un modo per esplodere sullo schermo.

