DIE MY LOVE
Il dolore, la solitudine e la rabbia di una donna abbandonata lungo il confine del mondo.
C’è una luce che non si spegne mai (come direbbero gli Smiths) in Die My Love, ultimo film della regista scozzese Lynne Ramsay con Jennifer Lawrence e Robert Pattinson. Nella zona rurale del Montana dove la coppia vive con il figlio neonato, la notte non è mai davvero notte: l’orizzonte resta costantemente velato da una luminescenza distante che impedisce al buio di appropriarsi del cielo. Questa assenza di oscurità è anche assenza di quiete, mentale e fisica, della protagonista, Grace, confinata nel ruolo di madre isolata, annoiata, depressa, incapace di ritrovare la sua voce di scrittrice e avvolta da un dolore che non le concede tregua.
Scrivere di Die My Love da uomo significa avvicinarsi con cautela a un territorio che non mi appartiene (o mi appartiene, ma da una prospettiva sbagliata): quello del dominio che la società patriarcale impone sistematicamente alle donne e delle fratture psicologiche che questo dominio acuisce e infetta.
Ma Lynne Ramsay racconta qualcosa di ancora più perturbante dell’asimmetria relazionale tra uomo e donna: la vita di una persona affetta da disturbo della personalità. Grace è imprigionata in una vita borderline, nel senso letterale di linea di confine. Nel suo vissuto risuonano diverse esperienze che la teoria femminista contemporanea ha provato a decifrare. Il margine, ad esempio, descritto da bell hooks come un territorio di resistenza capace di rovesciare collettivamente le gerarchie sociali. Ma in Die My Love, Lynne Ramsay mostra cosa accade quando nel margine si smarrisce il linguaggio adatto a esprimere il proprio disagio. L’isolamento a cui Grace viene costretta è fisico, nella casa dispersa nella piattezza umana e spaziale del Midwest; sociale, nel ruolo materno che la ingabbia; psicologico, nel dolore che nessuno attorno a lei riconosce. Qui, il margine può solo richiudersi su sé stesso e trascinare tutto in una tomba, come nella più classica delle tragedie folk horror.
In questa condizione di instabilità riverbera anche ciò che Silvia Federici descrive quando parla di caccia alle streghe nella storia e nella contemporaneità: un processo di disciplinamento dei corpi femminili, in cui ogni deviazione dalla norma, ogni esagerazione emotiva, ogni insofferenza ai ruoli, ogni desiderio di autonomia, viene percepita come minaccia all’ordine costituito. La reazione alla completa libertà di Grace attraverso il ricovero immediato, dimostra quanto sia raro trovare un luogo (e una relazione e una comunità) che permetta al corpo femminile di attraversare la sofferenza senza essere corretto o patologizzato.
Il film (come la misera vita familiare raccontata sullo schermo, del resto) si regge sulla performance monumentale di una Jennifer Lawrence realmente in attesa del secondo figlio. Lawrence abita il personaggio con una connessione ancora più solida e un’aderenza totale, attraverso la torsione degli arti, le smorfie e gli sguardi catatonici che raccontano più di qualsiasi parola. La sua Grace non è solo una donna travolta da una condizione di estrema vulnerabilità: è un essere umano costantemente a disagio fuori e dentro di sé, in una società che pretende sempre e solo fottuta resilienza.
L’asimmetria di genere tra lei e il compagno è cruciale per comprendere l’ennesima sconfitta di genere: essere padre non ha e non avrà mai lo stesso carico emotivo e fisico di essere madre dentro una struttura sociale che sottrae responsabilità all’uomo e addossa alla donna il fardello del lavoro di cura. Nonostante l’apparente tenerezza, il privilegio di Jackson si manifesta nella possibilità di rifugiarsi nel lavoro (o in altri passatempi non specificati, ma ben suggeriti), nella distanza fisica messa tra lui e i doveri coniugali e genitoriali, nella superficialità di non concepire il disagio finché non gli viene urlato in faccia.
In quei momenti di crisi, in cui Grace ritorna a un comportamento animalesco, la donna realizza una frattura tra corpo umano civilizzato e pulsione selvaggia pre-sociale. E quando Grace ferisce sé stessa contro finestre o specchi, non cerca solo la distruzione dell’io, ma un’estinzione visiva, la rimozione dell’immagine che non le è permesso abbandonare.
Die My Love è meraviglioso sul piano stilistico e fa male, molto male per quello che racconta. Ma è anche un invito, per chi guarda, a interrogarsi sulle forme sottili e quotidiane di violenza e micro aggressioni che ognun* di noi subisce e infligge. Dimenticando troppo spesso che nei corpi oppressi cova un silenzio che può trasformarsi, come nel film, in un incendio in grado di bruciare tutto.

