BUGONIA
È più facile immaginare un’invasione aliena che la lotta al capitalismo.
Come osservava il compianto Mark Fisher, il sistema capitalista non ha soltanto colonizzato la sfera economica, ma anche quella culturale e psicologica, occupando ogni spazio dell’immaginazione e rendendo (quasi) impossibile anche solo l’idea di un’alternativa percorribile. Chi ne subisce la violenza ma non possiede gli strumenti per comprenderne la struttura impersonale e complessa, può cadere nella trappola del realismo cospirazionista: è più facile immaginare un grande complotto nel mondo che l’esistenza del capitalismo.
Nella continua evoluzione mirata alla sua autoconservazione, il capitalismo non può reprimere direttamente la rabbia collettiva: è più redditizio farla detonare nella direzione sbagliata. Questo sistema non solo è responsabile di condizioni sociali quali disuguaglianza, sfiducia istituzionale e analfabetismo funzionale, ma della costruzione di una rete di distrazione di massa, dove il pensiero critico si trasforma in fantasie persecutorie e lo sviluppo di una coscienza di classe viene disarticolato e frantumato in un’infinità di teorie, sospetti, complotti.
In Bugonia, il nuovo film del regista greco Yorgos Lanthimos, il cospirazionismo non è soltanto un pretesto narrativo, ma un dispositivo per esaminare la condizione di una classe lavoratrice sempre più smarrita e abbandonata a sé stessa. Quando viene meno la possibilità di identificare la propria alienazione, si materializzano gli alieni.
Succede a Teddy (Jesse Plemons), operaio con l’hobby dell’apicoltura che vive ai margini di una cittadina della Georgia con il cugino neurodivergente Don. Un giorno l’uomo decide di rapire la CEO (Emma Stone) dell’azienda farmaceutica per cui lavora, convinto che sia un’aliena arrivata sulla Terra per sfruttare gli esseri umani. Niente di più folle, niente di più vero: da più di due secoli i capitalisti moderni sono in missione tra di noi per estrarre plusvalore dalla vita stessa del proletariato. Che la dirigente sia davvero un’extraterrestre o soltanto una proiezione della mente di Teddy, importa poco: è solo un diversivo orchestrato dal regista con la crudeltà di un gatto che gioca col topo. Il suo corpo esposto all’umiliazione, alla tortura e al dolore è un mezzo per testare i limiti del corpus stesso del capitalismo contemporaneo, un potere che non ha mai avuto bisogno di fingersi umano.
Lanthimos orchestra questo massacro di classe interstellare con il solito, sarcastico sadismo nei confronti dello spettatore: tutto nel film è instabile, ambiguo, oscillante tra la lente deformante del grottesco e improvvise esplosioni di rabbia. Per il regista greco, la dimensione allucinatoria è ormai la forma ordinaria dell’esperienza umana.
Non è un caso che nella parte centrale il film sembri evocare estetica, spazi e tensioni di un caposaldo del cinema politico: The Texas Chainsaw Massacre. Nel 1974 Tobe Hooper raccontava la follia della working class americana, divorata da un capitalismo che l’aveva privata del lavoro e della dignità. Mezzo secolo dopo, Yorgos Lanthimos aggiorna la genealogia del massacro nel presente neoliberale, dove il medesimo desiderio represso di giustizia sfocia nella violenza. Non c’è poi tanta differenza tra Leatherface, Teddy o Luigi Mangione: tutti incarnano un odio di classe svuotato di coscienza politica e trasformato in furia individuale. È la violenza di chi crolla sotto la pressione di una non-società indifferente ai suoi bisogni e la colpisce alla cieca attraverso il gesto distruttivo.
Ma il film, nonostante il pre-finale capace di strappare una risata e la conclusione che invece fa raggelare il sangue, lascia intravedere una via d’uscita. Nel momento in cui lo spettatore comprende il dolore dietro al delirio del protagonista, riconosce anche la propria condizione di subalternità verso il quotidiano ricatto del potere. Capisce che la paranoia non è una devianza individuale, ma una condizione mentale prodotta da un modello economico che ha distrutto la socializzazione della lotta e privatizzato la paura. Il compito che Lanthimos sembra affidarci con Bugonia è quello di imparare a riconoscere l’ingiustizia in ogni sua forma e trovare in fretta un antidoto. Perché la lotta non è contro i marziani, ma contro le logiche che ci hanno convinti della loro esistenza. Altrimenti finirà male. Molto male.

